Perché è così importante riconoscersi in una community?

Pensi mai alle community di cui fai parte?

Passiamo sul posto di lavoro buona parte del nostro tempo di veglia, e oltre un terzo della nostra vita. Le nostre vite sono intrecciate a quelle di altre persone, che spesso non abbiamo scelto, ma con le quali dobbiamo condividere tempo, decisioni, obiettivi, risorse. 

Cosa ci fa dire che siamo parte di una community?

Un ingrediente fondamentale è il riconoscimento: mi riconosco in una community e questa mi riconosce come suo membro, così come lo fanno tutti gli altri membri. Dire “noi” quando parliamo di un gruppo è spesso un segno di forte appartenenza: la distanza alla quale mettiamo la linea che divide quel “noi” da “loro” dice molto di un’organizzazione. Pensate alle aziende che lamentano la divisione in silos, alle frizioni tra business unit o reparti, alle difficoltà comunicative tra team diversi. Una community è qualcosa in cui ci riconosciamo e che ci riconosce, come individui e come suoi membri, qualcosa che contribuisce a definire la nostra identità. Nel corso di The Fair of Others, uno dei format di Effetto Larsen, esploriamo proprio le dinamiche che portano le persone a tracciare un confine del proprio “noi“, lavoriamo insieme a loro per scoprire questo confine e, se lo desiderano, provare a spostarlo. 

Cosa succede in una community?

Una delle attività fondamentali è lo scambio: di beni e servizi, ma anche di idee, saperi e competenze. Come insegna Palo Alto, la comunicazione è comportamento, e una community è il contesto perfetto di interazione: i comportamenti stabiliscono regole, affermano valori, trasmettono competenze. “Actions speak louder than words” dicono gli anglofoni, le azioni parlano più forte delle parole, e sono quelle che davvero portano un cambiamento. Sono le azioni a trasmettere buona parte delle informazioni e a stabilire delle regole comportamentali. 

Naturalmente in una community succede molto di più: ad esempio le persone sono più consapevoli e responsabili verso il benessere collettivo, in quanto si percepiscono come parte del tutto, come un “noi”, e non come frammenti separati.

La qualità delle relazioni

Uno degli studi sociologici più lunghi della storia, condotto da Harvard per oltre 75 anni, ha dimostrato come la qualità delle relazioni interpersonali sia l’elemento che più incide sulla salute e sulla felicità delle persone. Se doveste scegliere su cosa investire oggi per essere persone migliori, più felici e sane domani, adesso conoscete la risposta. Relazioni di qualità facilitano anche il raggiungimento degli obiettivi aziendali, riducendo le energie disperse in attriti personali, chiarendo la visione collettiva, contribuendo a costruire il significato delle proprie azioni. 

Essere parte di una narrazione più grande

Un’altra caratteristica delle community è quella di avere una narrazione comune, un immaginario condiviso. Pensate alle mitologie delle varie culture, ai simboli come rappresentazioni, alle antiche tradizioni orali sopravvissute per secoli. Per attrarre talenti è necessario raccontare la propria organizzazione – e quindi la propria community – in maniera accattivante, intelligente, concreta. La storia deve intrigare, e per farlo deve contenere valori e sfide. Una buona storia è a più livelli: fruibile nell’immediato, lascia poi qualcosa su cui riflettere. Spesso è semplice da ricordare e capace di emozionare. Qualsiasi essere umano desidera essere parte di una storia, colmare il proprio senso di appartenenza. Personalmente ne ho fatto esperienza con Mnemosyne, un progetto che ho portato in diversi paesi europei, e che consiste nel creare una mappatura emotiva di un luogo. Si raccolgono storie, che poi diventano un’installazione che consente di condividerle. Migliaia di volte ho visto le persone emozionarsi nel realizzare di essere parte di un disegno più grande, ascoltare la loro storia come frammento di un racconto complessivo. Questo è uno dei bisogni ai quali un’organizzazione capace può rispondere, costruendo fiducia, sicurezza e futuro.